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Immagine del redattoreEdiveria

Il contatto fisico ai tempi del Coronavirus

Guarda come appoggia la guancia alla sua mano:

Oh, potessi essere io il guanto di quella mano e poter così sfiorare quella guancia! W.S.

Contatto, cosa ci viene in mente leggendo questa parola? Approfondendo la sua etimologia, ha origine da contactus derivato di contingĕre ‘toccare’. Durante l’emergenza Covid, rispetto alle indicazioni di mantenere una distanza fisica, sono state usate altre parole con la stessa origine semantica, ad esempio contagio. Quest’ultimo assume una valenza negativa rispetto al contatto, il contagio rimanda alla contaminazione. Ma le parole da sole sono solo un segno usato con il tentativo di catturare un’esperienza vissuta, sentita, percepita. Come scrive Wittgenstein, possiamo esibire un segno, ma non il sentimento. Cioè, possiamo tentare di tradurre con le parole quello che sentiamo, proviamo, ma non sarà mai esaustivo, lasciamo sempre qualcosa da parte.

Ad esempio, in un momento come la crisi Covid, in cui è richiesto il distanziamento fisico, è possibile riconoscere cosa si intende in termini di comportamento da attuare: grazie a precise linee guida ci dicono che bisogna mantenere la distanza di un metro dalle altre persone, almeno che non siano nostri congiunti, quindi non ci si può baciare; abbracciare; al massimo ci si saluta con il gomito. Ma è più difficile esplorare la dimensione simbolica di ognuno di noi e quali implicazioni abbia il distanziamento fisico.

La questione può essere presa da diversi punti di vista: da un lato cosa significa per le persone il distanziamento fisico e con quali significati riempiono quindi questa locuzione, dall’altro lato cosa a livello biologico accade attraverso il contatto.

Il tatto è uno dei nostri cinque sensi, conosciamo il mondo anche attraverso questo; tale aspetto diventa ancor più rilevante se si considera che il tatto è tra i primi sensi che acquisiamo dopo la nascita (l’udito è subito attivato anche durante la gestazione), che usiamo per conoscere il mondo ed inoltre nella nostra interezza corporea è quello più diffuso. Le sensazioni propriocettive sono diffuse in tutti il corpo: sensazioni di calore; brividi di freddo; la pelle d’oca quando ci sentiamo emozionati o quando veniamo accarezzati. La dimensione corporea, tattile e propriocettiva è pregnante nelle nostre vite e nella conoscenza ed esplorazione del mondo.

Rispetto all’analisi neuropsicologica si potrebbe dire molto, diverse sono le ricerche che mostrano come il contatto si correli ad un aumento della produzione e diffusione dell’ossitocina nel nostro corpo, l’ormone che svolge un ruolo fondamentale durante il parto e l’allattamento. Ormone al quale è stato attribuito un ruolo nelle azioni sociali come l’affiliazione e la formazione di relazioni. Famoso è anche l’esperimento di Bowlby che mostra come una baby scimmia prediliga il contatto con una mamma artificiale morbida, avvolta da coperte e non una mamma artificiale che offre cibo ma non calore fisico. Questa breve rassegna di prove scientifiche a livello neuropsicologico ci accompagna a rilevare come negli anni si sia costruito e condiviso un significato pregnante e simbolico attorno al contatto fisico, e anche al semplice abbraccio. Siamo immersi in una cultura e costruzione sociale che riconosce e legittima il contatto fisico come elemento alla base della socializzazione, dell’incontro dell’altro. Ad esempio pensiamo al gesto della stretta di mano quando ci si presenta ad una persona nuova; al significato associato all’abbraccio fraterno; alla mamma che prende in braccio il proprio bambino e come primo gesto lo porta al seno. Quanto si porta, è valido soprattutto all’interno di una cultura occidentale dove ad esempio è concesso ed è accettato, in particolare in quest’epoca storica, assistere ad effusioni amorose in pubblico. Ai tempi di mia nonna i fidanzati non potevano neanche uscire da soli, immaginiamoci se si potevano scambiare effusioni in pubblico. Inoltre, ad esempio l’abbraccio ha acquisito negli anni un significato anche di riconoscenza, pensiamo ad esempio all’abbraccio accademico; così come si usa abbracciarsi fra il clero assistente alla messa solenne. Curioso come invece nel pugilato acquisisca un altro significato: è un’azione scorretta tendente ad impedire i movimenti dell’avversario.

Quindi, se il significato dell’abbraccio e del contatto fisico si costruisce nell’interazione, consideriamo che siamo anche figli di un contesto culturale, quello occidentale, che lo consente e lo approva. Ad esempio in Cina non è apprezzato un contatto fisico stretto, come i baci, tra sconosciuti. In occidente, ad esempio in Italia, può non essere inusuale, invece, baciare sulla guancia una persona appena conosciuta. Durante l’emergenza Covid tutti noi cittadini stiamo vivendo tale assenza, siamo chiamati a mantenere la distanza dall’altro ed ognuno di noi, all’interno sempre del panorama socioculturale e anche familiare in cui nuota, lo vive a modo suo. Quando si parla di assenza può venire da pensare ad una mancanza con accezione negativa, contemporaneamente, noi specialisti della mente umana siamo chiamati ad accogliere le diverse possibilità nel vivere tale assenza: in tal senso non pensare che tutti viviamo lo stesso grado di mancanza da contatto fisico. Io posso parlare di me e potrei raccontarvi di come senta la mancanza di un caldo abbraccio della mia mamma - ma ahimè lei si trova a più di mille chilometri di distanza da me, e io da lei-. Ma allo stesso modo, come me, molte altre persone che si trovano nella stessa città dei propri cari e familiari non possono vivere un abbraccio ed un saluto. Ho ascoltato parole di pazienti, amici e amiche che mi raccontano, ad un metro di distanza, di quanto vorrebbero ricevere un abbraccio. E allo stesso modo, c’è chi non ne sente la mancanza, chi non vive l’assenza di questo canale comunicativo come una deprivazione.

Quando ci troviamo privati di questo aspetto, ma soprattutto del contatto diretto e caldo di un’altra persona, come ci sentiamo?

Contestualizzando all’emergenza Covid, bisogna prepararsi ad un prolungamento di tale distanza. E quindi come possiamo provare a soddisfare questa fame di pelle? Gli americani, già da anni, hanno anche trovato un termine per esprimere questo sentire e lo hanno infatti denominato skin hugger. Però, non possiamo mangiarci, per proseguire nella metafora. Se vogliamo mantenere bassa la possibilità di contagio, siamo chiamati a non poterci toccare. E quindi come si fa a convivere con il distanziamento fisico?

Con alcuni dei miei pazienti abbiamo trovato soluzioni alternative. C’è chi mi racconta di come tale assenza abbia lasciato spazio ad altre sensazioni, ad altri sensi. Ad esempio alla vista: il vedersi comunque, anche se momentaneamente dietro uno schermo o dietro la mascherina e ad un metro di distanza. Ad ascoltare con maggior attenzione la voce del vicino, di chi ci parla: porre attenzione al timbro, al volume, alle parole che usa. Si possono sempre chiudere gli occhi ed immaginare un caldo abbraccio, o quel bacio tanto anelato. Chi riesce ed è più fortunato potrà sentire il calore, e le sensazioni diffondersi.

Tutto quanto è stato fin qui argomentato si configura come valido all’interno di una logica che riconosce e legittima il distanziamento come misura cautelare per contrastare il contagio. Per non lasciare fuori, o per lo meno questo è il tentativo, altri pensieri, mi domando: Quanto siamo disposti a cercare di sopperire alla mancanza di contatto fisico?

Forse stiamo un po' peccando di Iubris? Siamo noi, genere umano, contro il virus, ma il virus c’è e non abbiamo certezza di quando, e se, riusciremo a controllarlo.

Nel frattempo …Quello che ci stanno chiedendo è di non entrare in contatto per evitare il contagio, stiamo entrando in una nuova epoca in cui accogliamo e costruiamo questo nuovo modo di vivere? Siamo quindi disposti a pagare il prezzo per lo stendardo dell’evitare il contagio?

Quello che poi accade è che, ancora una volta, si rileggono le normative secondo le prospettive individuali, c’è chi è rimasto chiuso in casa, chi è uscito incontrando ‘clandestinamente’ amici. Cosa si vorrebbe fare con tali normative? Controllare che tutta la popolazione si mantenga a distanza? Permettere il contatto solo tra i congiunti? E chi non ha congiunti che fine fa?

Viviamo oggi e adesso, è questo il tempo che possiamo vivere. Ci stanno chiedendo di vivere questo presente in termini ‘sospesi’, sembrano dirci: ‘non avvicinatevi oggi finchè non arriva un domani più sicuro e protetto’. Nel frattempo, aspettando questo domani, come esercitiamo la nostra responsabilità di cittadini? Come diceva De Crescenzo in un famoso film in bianco e nero: Il problema è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece dovrebbero studiare come allargarla. Ci stiamo preoccupando di allargare questa vita ai tempi del Covid? O la preoccupazione è come allungarla? Continuiamo, magari per un anno a viverci distanti l’un l’altro ad un metro di distanza? Si è innescato e mantenuto un sistema, o per lo meno in Italia e in gran parte d’Europa, dove lo Stato prescrive e decide quello che il cittadino deve fare, con l’obiettivo di difenderci dal virus.

La questione è contorta, da un lato possiamo provare a offrire modi alternativi per colmare la mancanza di contatto fisico, dall’altro sembra che ci dobbiamo abituare a nuove distanze sociali.

Nel frattempo io, cercando la forma più responsabile da poter attuare, dall’ 8 marzo , inizio del lockdown ad oggi, 21 maggio, non ho abbracciato nessuno e ho visto tutti a quella distanza raccomandata e con addosso le mascherine. E nel frattempo ci ho pensato, e ci penso a quali scelte compiere per stare meglio e a quale posizione occupa il contatto nella mia costruzione di esistenza e identità.

Buonanotte, buonanotte! Separarsi è un sì dolce dolore, che dirò buonanotte finché non sarà mattino. W.S.

L’autrice dell’articolo: Agata Gulisano, Psicologa Specializzanda in Psicoterapia Interazionista.

Psicologa clinica specializzata nell’ambito delle problematiche personali, interpersonali e sociali. Si occupa, inoltre, di tematiche e interventi rivolti a minori e famiglie in difficoltà.

agata.gulisano.psy@gmail.com


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